Dino Ranieri Emilio Perrone Compagni
Firenze 22 ottobre 1879- 5 gennaio 1950BIOGRAFIA STORICA RAGIONATA SULLA BASE DI DOCUMENTI DI ARCHIVIO
A cura del Co. Stefano Guelfi Camaiani
Proprietario e Direttore della
Biblioteca Storico Araldica Genealogica Guelfi Camaiani
di Firenze
Stefano Guelfi Camaiani
Il Marchese Dino Ranieri Emilio Perrone Compagni nacque a Firenze il 22 ottobre 1879, figlio secondogenito di Cesare Luigi Giuseppe Ranieri Perrone e di Giovanna Augusta Compagni.
Discendente da parte paterna di un ramo cadetto della nobile famiglia piemontese Perrone, incardinata nei territori di Chiaverano e di Rivara, in provincia di Torino e da parte materna dalla nobile famiglia Compagni, patrizia fiorentina e pisana, deve il doppio cognome alla legittima aggiunzione del cognome materno ottenuto dal padre Cesare Luigi Giuseppe Ranieri con Regio Decreto dell’8 novembre 1891.
Il padre Cesare Luigi Giuseppe Ranieri, Ufficiale del Regio Esercito, Sindaco di Carmignano, così come il nonno Ottavio Carlo Giuseppe Giovanni, Medico, facevano parte della Corte di Casa Savoia, entrambi insigniti dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, il primo anche dell’Ordine della Corona d’Italia.
La nobile famiglia Perrone, dal 1891 Perrone Compagni, sebbene di origine piemontese figura ben inserita nel tessuto sociale fiorentino sin dal trasferimento in Toscana del predetto Cav. Dottor Cesare Luigi Giuseppe Ranieri avvenuto al tempo di Firenze Capitale. Il Cav. Dottor Cesare Luigi Giuseppe Ranieri sposò l’ultima rappresentante del Nobile Casato fiorentino Compagni, Giovanna Augusta, a Firenze il 2 agosto 1872, nipote del Cav. Ottaviano, Ciambellano dei Granduchi di Toscana Ferdinando III e Leopoldo II, erede per alleanze matrimoniali delle consorterie e dei patrimoni Cavalcanti, Riccardi, Corbinelli, Brunaccini, Marucelli, tutte nobili e patrizie fiorentine, e dei Conti Chimelli. Giovanna Augusta Compagni figura iscritta con il titolo di patrizia fiorentina in Elenco Ufficiale della Nobiltà Italiana (1922- 1934). Non è da escludere che le famiglie Perrone e Compagni si conoscessero già da tempo dal momento che un ramo della famiglia fiorentina dal ‘600 si era stabilita in Piemonte, ivi nobilitata con il titolo di Conte di Mombello, nel mentre un altro ramo si era insediato in Francia assurgendo agli onori nobiliari del Regno con i titoli di Conti di Courvierés, Signori di Usiers. A Firenze i Compagni erano rinomati per il grande patrimonio immobiliare e terriero in parte proveniente dai propri antenati, in parte per il matrimonio contratto dal Cavaliere Ottaviano con Giovanna Brunaccini erede anche delle sostanze della Nobile Consorteria dei Marucelli. Cesare Luigi Giuseppe Ranieri Perrone Compagni si dovette occupare, dopo il matrimonio, a ben amministrare le consistenti sostanze della moglie incarnando perfettamente la figura non solo di uomo onesto, dedito al lavoro in qualità di funzionario pubblico, ma anche di ottimo marito, non interessandosi soltanto ai beni materiali ma anche agli obblighi morali vista la mole di corrispondenza presente nell’archivio familiare con le autorità statali ed ecclesiastiche a fronte dei diversi diritti ecclesiastici di Casa Compagni e Perrone Compagni, che richiedevano un costante seguito come il diritto di patronato (dotato di due altari e un oratorio) sulla Pieve di San Martino ad Agliati in Diocesi di San Miniato (Compagni), il diritto di patronato (dotato di un altare e di un oratorio) sulla Pieve di Santa Lucia a Montebicchieri in Diocesi di San Miniato (Compagni- Perrone Compagni), ove la famiglia Compagni aveva la bellissima tenuta di famiglia con annessa fattoria, il diritto di patronato sulla Pieve di San Pancrazio a San Pancrazio Val di Pesa in Diocesi di Firenze (Compagni- Perrone Compagni), il diritto di patronato sulla Chiesa di S. Maria a Monte Calvi o Calvoli in Val di Pesa in Diocesi di Firenze (Compagni), il diritto di oratorio intitolato alla Natività di Maria Vergine sulla Pieve di S. Niccolò a Calenzano in Diocesi di Firenze (Compagni), nei pressi del quale la famiglia Perrone Compagni possedeva la bellissima villa con annesso parco detta il Castellaccio, nel Comune di Poggio a Caiano, il diritto di patronato sulla cappella intitolata al SS. Sacramento nella Chiesa di San Pancrazio in Firenze in Diocesi di Firenze (Compagni), il diritto di patronato sulla cappella intitolata a San Girolamo nella Chiesa di San Remigio a Firenze in Diocesi di Firenze (Compagni), il diritto di patronato sulla cappella intitolata a San Girolamo nella Chiesa di S. Maria de’Ricci a Firenze in Diocesi di Firenze (Compagni- Pitti- Masetti), il diritto di patronato sulla cappella dedicata a San Giovanni Gualberto nella Basilica di SantaTrinita a Firenze in Diocesi di Firenze (Compagni- Perrone Compagni), il diritto di patronato sulla cappella dedicata a San Mattia nella Basilica di S. Spirito a Firenze in Diocesi di Firenze (Corbinelli- Compagni), tutti benefici ecclesiastici decaduti soltanto con il Concilio Vaticano II. Sempre per rimarcare l’alto senso della famiglia, delle tradizioni, di carità, nel 1890, Cesare Perrone Compagni con la consorte istituirono l’Opera Pia Perrone Compagni già Corbinelli, facendo valere il lascito testamentario dell’avo Maffio Corbinelli del 22 febbraio 1420, Istituzione concentrata nel 1903, con R.D., nella Congregazione di Carità del Comune di Firenze, soppressa soltanto nel 1968 con D.P.R. La famiglia alla fine dell’800 risultava finanziariamente buona, sebbene la situazione economica critica della Nazione.
Come sopradetto il Marchese Dino era secondogenito, avendo un fratello maggiore, Camillo Emilio Giuseppe, ed una sorella minore Ottavia Emilia Anna. Il Marchese Camillo, nato a Firenze il 28 febbraio 1878, si unì in prime nozze, a Firenze nel 1899 con la Nob. Donna Giuseppina dei Conti Calciati, nipote da parte di mamma del Principe Scherbatoff (famiglia imparentata con i Romanoff, Zar di Russia), ed in seconde con Iole Emilia Vettori. La sorella Ottavia Emilia Anna nacque a Firenze il 18 maggio 1881 e morì, sempre a Firenze, il 23 agosto 1977 senza mai sposarsi.
In questo preciso quadro storico familiare e sociale, assai dettagliato ed assai interessante, assolutamente non decadente (come da taluni, senza fondamenta, asserito per il quale si rimanda alla decisione del 3 novembre 1951 della Commissione Centrale per le Imposte di Firenze, v. più avanti) si ubica la vita del Marchese Dino Perrone Compagni del quale scarsi sono i riferimenti circa la vita adolescenziale. Sappiamo che fu allievo dell’Istituto Convitto Cavour di Firenze, dove conseguì la licenza ginnasiale, non si iscrisse mai all’università, scelta sicuramente non condivisa dalla famiglia. Sta di fatto che partì militare arruolandosi volontario di truppa nella prima Grande Guerra (1915-18), durante la quale fu decorato della Croce al Merito. Sull’argomento tanto si è scritto e detto senza alcun giustificato approfondimento o meglio tanto per sminuire il biografato. Il Marchese Dino Perrone Compagni, come si può evincere anche dal web, nel 1902 risulta Sottotenente di Cavalleria nel Reggimento Savoia di stanza a Firenze, destinato a Caserta. Nel 1905 per una questione di onore con un altro Ufficiale si rivolse, per vedere riconosciute le sue ragioni, all’Autorità Militare Territoriale affinché l’accaduto fosse giudicato da un Consiglio di Disciplina, che si pronunciò con la rimozione dal grado di entrambi. Nel 1907 il Marchese Perrone Compagni ricorse alla IV Sez. del Consiglio di Stato che rigettò la richiesta non ravvisando vizi di forma del Consiglio di Disciplina. La vicenda si risolse con una nuova istanza inoltrata nel 1924 alla Corte d’Onore Permanente di Firenze che promulgò a pieno titolo il rientro nei ranghi originari il Nobiluomo fiorentino. Ad ogni buon fine al rientro dalla Prima Grande Guerra, disilluso dalla catastrofica situazione socio- economica nella quale l’Italia si ritrovò nel 1919, seppur sedesse tra i vincitori ai lavori del Trattato di Versailles (dato storico oramai assodato universalmente), disgustato dall’incapacità dei politici italiani del tempo di far valere le giuste ragioni della nazione, fondò con Piperno e Giunta la “Sezione dei Combattenti di Firenze” nel tentativo di rivalutare la vita e l’opera, sacrificate inutilmente, di chi si era adoprato per gli ideali di libertà, di patriottismo, di unità nazionale e per di più di opporsi ai moti turbolenti rivoluzionari dei movimenti di sinistra che stavano ampiamente dilagando in tutto il paese. Presiedette quindi il “Fascio Giovanile d’Azione Liberale”, cooptato nel frattempo dalla Massoneria, quella più moderata e conservatrice, corrispondente alla Loggia di Piazza del Gesù.
Nel 1920 conobbe Mussolini e per suo volere fu eletto Segretario del Fascio di Firenze (carica che mantenne sino al 1922), trovandosi coinvolto in taluni fatti succedutisi nel capoluogo Toscano, assolutamente non chiari, che portarono, nel febbraio 1921, all’omicidio del sindacalista comunista Spartaco Lavagnini, omicidio da taluni, in modo del tutto fazioso e non provato, addebitato alla sua persona. Ciò vale per i tanto decantati fatti accaduti a Foiano della Chiana (dove tra l’altro fu ferito), a Roccastrada ed altri ove non si è mai rinvenuta traccia della presenza diretta del Perrone Compagni. Anzi, nel maggio 1921, durante le elezioni politiche, il Marchese Perrone Compagni intervenne con decisione per porre un limite alle intimidazioni fasciste alla cittadinanza pisana, aspetto strategico ed assai ponderato che gli valse l’elezione, nell’agosto, a Segretario Politico Regionale dei Fasci della Toscana. Durante il suo mandato cercò sempre di mediare con obiettività le difficili situazioni che si creavano, di volta in volta, a causa delle fazioni interne e delle molteplici anime del movimento fascista. Per questo motivo, per le sue capacità di mediatore e di arbitro, divenne il punto di riferimento del fascismo toscano, organizzando e coordinando la lotta politica e squadrista nella regione, partecipando personalmente a diverse azioni, riportando anche ferite, prima a Livorno, più tardi a San Giovanni Valdarno. Si meritò l’appellativo di “Granduca di Toscana” per le sue capacità arbitrali, super-partes e per la sua signorilità che lo contraddistingueva dagli altri colleghi di pensiero. Nel novembre del predetto anno, dopo il III Congresso Nazionale dei Fasci Italiani di Combattimento, svoltosi a Roma, che sancì formalmente la costituzione del Partito Nazionale Fascista, il Marchese Perrone Compagni, con il Gen. Gandolfo, all’allora Capitano Italo Balbo e al pluridecorato, Med. d’Oro, Ulisse Igliori fece parte del Comando Generale delle “Squadre di Combattimento”. A seguire iniziò un nuovo periodo particolarmente complesso per il Marchese Perrone Compagni che si trovò a dover dirimere e gestire le due anime del Partito Fascista Toscano, quella da lui stesso coordinata, conservatrice e moderata, e quella del suo più forte antagonista ossia Tullio Tamburini, populista e terrorista. Nel gennaio 1922 fu ucciso per mano del comunista Cafiero Lucchesi (già graziato anni prima per diserzione dal Presidente del Consiglio Nitti) l’ex ufficiale degli Arditi, che aveva militato con onore a fianco di D’Annunzio a Fiume, Federico Florio, convinto sostenitore dell’azione del Tamburini, provocando aspri diverbi tra i fascisti stessi, tra le fazioni garantiste e quelle giustizialiste. Gli scontri all’interno del partito tra Ispettorato di zona e Federazione si fecero alquanto duri, vista la inneggiata rappresaglia contrastata dal Marchese Perrone Compagni. La diatriba tra il Perrone Compagni ed il Tamburini portò allo scioglimento del Fascio Fiorentino, quindi all’epurazione degli estremisti per esplicita volontà del Nobiluomo fiorentino. I mesi a seguire si svolsero nel tentativo di riappacificare le due correnti che dopo un certo periodo di attività autonoma per imposizione del Governo Centrale si riunirono a settembre con il riassorbimento delle falangi estreme. Nel frattempo nel luglio 1922 Dino Perrone Compagni fu inviato a Livorno in qualità di Commissario Straordinario presso il locale Fascio al fine di riappacificare le diverse anime degli iscritti. Nell’ottobre 1922 il Marchese Perrone Compagni partecipò alla Marcia su Roma al comando della “Colonna Perrone” e di tutte le Legioni toscane della milizia fascista. Nel dicembre del 1922 le Squadre di Combattimento furono sostituite con la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Detto organo fu posto sotto la Direzione di un Comando Generale composto da De Vecchi, De Bono e Balbo. Il Marchese Perrone Compagni fu incaricato di comandare una delle dodici zone in cui era stata articolata la suddivisione territoriale della Milizia Volontaria. L’anno successivo fu ispettore generale della Quarta zona e della Settima zona del Partito Nazionale Fascista. Alla fine del 1922 rassegnò le sue dimissioni dal Partito Nazionale Fascista per il perpetrarsi dei dissensi a livello regionale ed a livello nazionale con una oramai assodata visione inconciliabile del percorso politico, presente e futuro, del partito. In poche parole in qualità di vertice del partito doveva rispondere di azioni non condivise né conosciute a discapito della sua immagine. Purtroppo oramai il Marchese Perrone Compagni aveva definitivamente scelto la strada dell’ordine, della legalità, dell’attività politica forte ma ordinata, ligio alle regole del rispetto dei ruoli e delle scelte oltre che dei ranghi. Non sopportava essenzialmente che la sua persona, la sua figura, le sue idee fossero mescolate, confuse, fraintese non solo per i danni che queste potevano portare a sé stesso ma anche allo sviluppo dell’idea politica. Rientrò nel Partito alla fine del febbraio 1923 per esplicita richiesta di Benito Mussolini, ma assunse posizioni polemiche, manifestando forti riserve verso la politica di normalizzazione in corso negli ambienti fascisti venendo sostituito da Teodoro Alessi nella carica di Comandante della VII zona della Milizia. Negli anni 1923-1924 Dino Perrone Compagni mosse querele contro noti elementi fascisti: il Console della milizia Tullio Tamburini, Leandro Arpinati ed altri che gli procurarono non poche critiche dal Consiglio Centrale. Volle quindi una Commissione d’inchiesta che si pronunciò in modo parziale così da dimettersi nuovamente dal Partito nel settembre del 1924. Fece un ultimo tentativo scrivendo direttamente al Duce, riconoscendosi soltanto in lui, chiedendo di sciogliere il Partito Nazionale Fascista definendolo il peggior nemico della “Vostra magnifica opera”. Il Marchese Perrone Compagni da questo momento assunse a seguire una posizione sempre più autonoma e parallela agli indirizzi di Partito. Nel 1925, da aprile a ottobre, ricoprì la carica di Segretario della Federazione Provinciale fiorentina del Partito, carica che lasciò quando fu ucciso il suo predecessore Luporini. Nello stesso anno il Comune di Montaione (Fi) nominò il Marchese Perrone Compagni “Cittadino Onorario”. Ritenuto oramai d’ostacolo in Toscana allo sviluppo degli intendimenti del Partito fu inviato a Reggio Emilia a ricoprire l’incarico di Prefetto della città e della locale Camera di Commercio, incarico che mantenne dal 16 dicembre 1926 al 25 gennaio 1930, periodo nel quale si trovò a affrontare gli stessi problemi che si erano negli anni palesati a Firenze. Entrato in conflitto con l’On. Giovanni Fabbrici, personaggio di spicco del fascismo radicale reggiano, chiese di essere congedato mettendosi a disposizione del Partito, auto emarginandosi dalla scena pubblica. Nel 1932 fu nominato, con R.D. del 4 agosto, Ministro di Stato e nel 1934 Senatore del Regno, con R.D. del 6 aprile. Nel 1934 fu nominato anche dapprima Console della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, quindi Luogotenente Generale della medesima. Fu insignito il 19 aprile 1930 dell’Ordine della Corona d’Italia col grado di Commendatore, quindi il 3 giugno 1932 del grado di Cavaliere dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, successivamente, in data 14 agosto 1934, insignito della Gran Croce, decorato del Gran Cordone dell’Ordine della Corona d’Italia. Dal 6 aprile 1937 al 2 marzo 1939 fu membro della Commissione per il giudizio dell’Alta Corte di Giustizia. Nel 1943 fu tra i Senatori che aderirono alla Repubblica Sociale Italiana. Fu un convinto fascista ed al tempo stesso un convinto monarchico, ossequiante fino allo fine sia il Duce che il Re e Casa Savoia. Il suo archivio conservato dal figlio Giorgio è una vera miniera di notizie storiche oltre che di fitte corrispondenze che attestano la duplice fede costantemente nutrita e coltivata.
La vita del Marchese Perrone Compagni non fu solo caratterizzata dall’attività politica ma anche da un percorso professionale- imprenditoriale.
Dal 1933 al 1941 fu membro del Consiglio di Amministrazione e poi Presidente della Società Anonima “La Motomeccanica” di Milano; dal 1933 al 1934 Amministratore Unico della Società Anonima “Colombo Officine” di Milano; dal 1933 al 1942 membro del Consiglio di Amministrazione e dall’11 settembre 1933 Amministratore della Società Anonima “Alfa Romeo” (carica che mantenne fino alla socializzazione decisa dalla R.S.I.), risanandone i bilanci.
Fu arrestato a Varese alla fine di aprile del 1945 mentre era ricoverato in una clinica ed il 18 maggio, quando era agli arresti, gli fu notificata l’imputazione, emanata dall’Alta Corte di Giustizia per le sanzioni contro il fascismo, di avere aderito nel 1943 alla Repubblica Sociale Italiana. Decadde da Senatore il 25 luglio del 1945. Taluni contemporanei hanno scritto circa il biografato che fu arrestato con i capi di accusa di tradimento e di istigazione alla guerra civile, dati che non si rilevano dai documenti esistenti. Ed ancora, falsamente è stato scritto che il Marchese Dino Perrone Compagni alla notifica del succitato provvedimento di arresto si rese irreperibile nel mentre, come già riportato, era ricoverato in clinica ed ivi prelevato. Fu liberato soltanto dopo il processo del maggio del 1949, quindi non poté fare ritorno a Firenze (neanche per la scomparsa della moglie deceduta a Firenze il 29 agosto 1946 per cause oscure) se non dopo il termine del processo che sancì inequivocabilmente che il Marchese Perrone Compagni non fu responsabile di omicidi, neanche come mandante, così come, sotto il profilo penale, fu assolto da tutte le imputazioni per reati di sangue, mentre fu condannato perché orgogliosamente si vantò, dinanzi al Presidente del Tribunale, di essere stato tra i fondatori del Partito Nazionale Fascista. Morì in miseria pochi mesi dopo, a Firenze il 5 gennaio 1950.
Interessante oltre che alquanto eloquente risulta la decisione del 3 novembre 1951 della Commissione Centrale per le Imposte di Firenze, già precedentemente richiamata per correggere le fandonie scritte circa lo stato economico e sociale della famiglia del biografato, della quale si riporta per intero le conclusioni per sancire in via definitiva anche il profilo economico- finanziario del Marchese Dino Perrone Compagni, prima e dopo il fascismo. La Commissione scrisse: …omissis…”Osservato che risulta positivamente che il Marchese Dino Perrone Compagni, continuatore di una secolare tradizione familiare di elevatissima distinzione sociale non fu nella categoria di coloro che si lanciavano nella politica con la speranza, l’intento di perseguire vantaggi nei loro affari commerciali o professionali, entrò nel fascismo in ottime condizioni finanziarie, con un discreto patrimonio di provenienza ereditaria, e ne uscì in estrema miseria, al punto di dover essere ricoverato in un ospedale come degente di terza classe, e da dover essere sepolto con mezzi raccolti dalla pietà di parenti e amici”… Bello ed estremamente chiarificatore sarebbe riportare per esteso il presente testo che aprirebbe gli occhi ai tanti che hanno scritto nefandezze sulla vita e sulla famiglia del Marchese Dino Perrone Compagni manipolando la storia pro domo loro.
Circa la nobiltà della famiglia Perrone Compagni dai più inspiegabilmente messa in dubbio, negata, contestata, confusa, tanto quanto la posizione socio-economica, si rimanda alla consistente storia familiare depositata presso la Biblioteca Storico Araldica Genealogica Guelfi Camaiani di Firenze facendo presente che il Marchese Dino Perrone Compagni fu per oltre vent’anni socio del Circolo Nobiliare dell’Unione di Firenze con relativa iscrizione nei ruoli col titolo di Marchese. Il titolo di Marchese spetta alla famiglia secondo quanto già sopra specificato ribadendo che la famiglia Perrone era già nobile in Piemonte sia per antica datazione sia per avere vestito ininterrottamente per tre generazioni l’abito dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e che una volta aggiunto il cognome Compagni surrogò, con trattamento del Re, della Casa Reale e delle Autorità di Stato perpetrato per oltre trent’anni, sostanze, onori e titoli di Casa Compagni.
Fonti e Bibliografia
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Fondo Dino Perrone Compagni, presso M.se Ing. Giorgio Perrone Compagni.
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